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  • Immagine del redattoreRiccardo Mezzatesta

IL FARO: MAURIZIO COSTANZO, MIA MADRE E LE MS (capitolo bonus)


Il tornare a casa la sera nella mia adolescenza si divide in due parti: tornare e trovare mia madre che fuma, tornare e trovare mio padre in mutande davanti alla porta del bagno.


Mia madre fumava lunghe sigarette notturne in cucina, la finestra aperta, la porta chiusa per non disturbare mio padre che dormiva da ore. Ergeva contro il sonno una lunga catena di MS Mild sapor di catrame, e la pacata assenza di collo di Maurizio Costanzo.


Sosteneva che dopo aver fatto i piatti e pulito la cucina gli passava la voglia di andarsene a letto; ma io conosco, perché l’ho ereditata, quella sua strana riluttanza ad arrendersi al sonno, quell’inquietudine di pensieri notturni su scelte prese e bilanci di vita.


Io ero, nel frattempo, su un muretto poco lontano, a bere e fare discorsi filosofici con Albano. Casa mia era al terzo piano, così, quando finalmente crollavamo e mi incamminavo verso casa, quando alzavo gli occhi la luce della cucina era ancora immancabilmente accesa. Era un po’ un faro minimo, una luce accesa non tanto dall’ENEL quanto dalla cocciutaggine di mia madre, e dal suo rosario di sigarette.


Rientrando, aprivo piano la porta della cucina. Maurizio Costanzo sussurrava, per non disturbare mio padre. Mi fermavo spesso un po’, a parlare con lei, e se avevo un rospo grosso lo tiravo fuori; allora, nella notte, le nostre teste si aprivano, e i miei demoni danzavano con i suoi sul tavolo di finto legno, illuminati dalla pubblicità dei detersivi.


E poi, stupidamente, continuai a “crescere”. E a fare sempre più tardi. Così una sera tornando a casa, alzai gli occhi, e la finestra della cucina era nera.


Provai un senso di enorme trionfo. Stavo facendo così tardi che persino mia madre era a letto!


“A che ora sei rientrato, ieri?” mi chiedeva lei il giorno dopo.


“Due, due e mezza.”


“Ma se sono andata a letto alle tre?”


“E allora alle tre, tre ed un quarto” rispondevo, palesemente bugiardo e sorridente.


Naturalmente, volli strafare. Mi imposi di rincasare un’ora dopo qualsiasi orario mi avessero dato. Se mi dicevano di tornare alle tre, tornavo alle quattro. Se il limite massimo erano le quattro, non mi facevo vedere prima delle cinque.


Questo inaugurò la seconda fase della mia adolescenza serale, quella presieduta da mio padre.

Casa nostra aveva due serrature. Tempo che le aprivo entrambe mio padre era già sveglio e in piedi; mia madre, andando a letto, gli aveva comunicato il mio mancato rientro, e così pur russando come un orso raffreddato, vegliava a metà. In un modo o nell’altro, casa mia mi aspettava.


Quando finivo di aprire la seconda serratura, la scena che mi trovavo davanti era sempre la stessa: mio padre in piedi davanti alla porta del bagno, una mano già sulla maniglia, gli occhi resi piccoli piccoli dal sonno e da una miopia enorme; in testa una fascetta “Sergio Tacchini” contro la sinusite, addosso canottiera a coste infilata nello slippino bianco. Per quanto ridicola la mise, era pur sempre mio padre quello che minaccioso mi puntava un dito contro.


“Comunque tu” decretava categorico “non esci più”.


Dopodiché si infilava in bagno: appena sveglio doveva sempre fare pipì.


Il decreto perdeva evidentemente vigore con rapidità, perché il giorno dopo uscivo, facevo tardi di nuovo e doveva essere riemanato, sempre davanti alla porta del bagno e sempre in fascetta e mutande.


“Comunque tu non esci più.”


Adesso i miei genitori non vivono più lì, ed io non vivo neanche nello stessa regione. Adesso sono un adulto, condivido la casa con due piante grasse e un nano da giardino, e il loro sonno non è minimamente turbato dal mio essere rientrato o meno.


Però qualche volta torno al paesello, naturalmente. E qualche volta passo nei pressi della nostra vecchia casa, la sera, e se la coppia rumena che ci vive ora è in cucina, la finestra è illuminata; ma anche da lontano si vede che le tende non sono le stesse, che in televisione non c’è più Maurizio Costanzo, e che ciò che era il mio faro non può esserlo più.


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